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Scritto da Luciano Luciani
StoricaMente
04 Gennaio 2024

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Anche allora, come oggi, il pallone era soprattutto tifato, parlato, radiofonico e televisivo. Poi c'era quello vissuto, giocato, praticato: motivo per il quale, come Enrico IV di Borbone, quello di “Parigi val bene una Messa”, pure io fui costretto a farmi cattolico. Sì, perché se in quegli anni volevi tirare due calci al pallone, l'unico spazio abilitato (un campetto stento e polveroso per squadrette di 5/6 elementi, due porte, uno spogliatoio a dir poco fatiscente) si trovava incuneato tra la basilica di Sant'Agnese e il Mausoleo di Santa Costanza. Area contesissima tra le piccole formazioni che si costituivano spontaneamente secondo un'appartenenza stradale: noi di via Bolzano vestivamo, chissà perché, una maglia a strisce verticali rossonere variamente stinte, pantaloncini ora neri, ora azzurri, ora blu scuro, ora del vestito della prima comunione e scarpe di origine diversa. Vuoi da passeggio, oppure da ginnastica, i più fortunati da calcio coi tacchetti chiodati, veri e propri stivaletti malesi per i piedi sull'età dello sviluppo di chi li indossava, micidiali per i graffi e gli sbreghi che infliggevamo nelle gambe degli sfortunati avversari.

In cambio di un paio di partitelle settimanali in improvvisati tornei rionali, correva l'obbligo della Messa domenicale nella basilica dalla splendida abside musiva dove anch'io ho intonato il canto T'adoriam ostia divina, / t'adoriam ostia d'amor, alternandolo con Mira il tuo popolo, o bella Signora /che pien di giubilo oggi t'onora; più cupo e misterioso mi rimaneva il Tantum ergo sacramentum / veneremur cernui / et antiquum documentum / nove cedet ritui... Seguiva una caotica ora di nozioni di catechismo spicciolo impartito dalle buone, ma mica tanto, suorine del Preziosissimo Sangue di Gesù, il tutto coronato dalla distribuzione di appiccicosi maritozzi e da un cioccolatino di gianduia della POA (Pontificia Opera Assistenza), probabile residuato dell'occupazione alleata della Capitale.

Nel pomeriggio, poi, dietro pagamento di prezzi popolarissimi, pochi spiccioli, proiezione di film devoti, ma anche no: in quell'ambiente rumoroso e in cui, tra fischi e imprecazioni, ogni dieci minuti la proiezione s'interrompeva perché saltava la pellicola, ho visto dei classici come “La città dei ragazzi”, con Mickey Rooney, il teppistello destinato a una felice carriera politica e Spencer Tracy nella parte che gli è sempre riuscita meglio, quella del prete cattolico di origine irlandese; oppure “Cielo sulla palude”, sulla vita di Santa Maria Goretti, elevata da pochi anni agli onori degli altari, esempio tutt'altro che banale di neorealismo cinematografico cattolico. O anche edificanti commedie musical-sentimentali, tipo “Arcobaleno sul fiume”, girato vent'anni prima, in cui Bobby Breen, un attore fanciullo canterino modellato al maschile sulla ben più celebre Shirley Temple, interpreta la parte di un bambino rimasto orfano dopo la Guerra Civile, che aiutato dalla sua ex schiava nera Toinette e da un buon sacerdote, ovviamente cattolico, padre Josef, ritrova a New York una nonna che inizialmente sembra rifiutarlo, ma poi lo accoglie emancipandolo dalla miseria e offrendogli il calore di una famiglia: film dolciastro, per non dire stucchevole che mi rimase addosso, però, per un sacco di tempo. Anche così crescevamo alla metà degli anni Cinquanta.

Erano poi disponibili un paio di tavoli da ping-pong e due/tre biliardini/calcio-balilla, quelli con le aste che infilzano ometti rossi e blu simulando accanitissime partite di calcio. Raccogliticcia la piccola biblioteca organizzata dai giovani dell'Azione Cattolica, ma, come ho già raccontato, tra le numerose biografie di sante e santi e libri devoti, non erano impossibili delle sorprendenti scoperte editoriali sfuggite, chissà come, al locale, occhiuto Index librorum prohibitorum.

Comunque, facile oggi, con gli occhi critici e smaliziati dell'adulto, parlare male di quei pomeriggi e quelle attività parrocchiali, palesemente finalizzate all'indottrinamento e alla salvezza delle nostre animucce peccatrici. Certo è che per i ragazzini tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza, non c'era altro, se non la strada dove comunque trascorrevamo non poche - troppe - ore tra il rientro da scuola e il buio della sera. Quindi, se ben ricordo, con sommo disdoro di mio padre, attratto dal pallone e da tutto il resto, insieme ai miei coetanei trascorsi non poco tempo, due o tre anni della mia esistenza, tra preti, giovinotti dell'Azione Cattolica, pratiche devozionali e tante, tante partite di pallone presso la basilica di Sant'Agnese fuori le Mura. Dove per altro mi ero comunicato e cresimato in età già tarda, 11 anni, se non ricordo male: vestito di color grigio topo, pantaloni corti, le gambe già arricchite dalla prima fitta peluria, nessun senso del sacro, nessun ardore mistico, come può accadere a quell'età. Rozzo materialista e positivista volgare, in questo risultavo molto simile a mio padre, come lui concentrato sulla già dura arte della sopravvivenza: mangiare tutti i giorni, stare bene di salute, un tetto sulla testa, una casa riscaldata d'inverno, un faticoso, almeno per me, accesso agli studi, una difficile dignità da conquistare ogni giorno...

Ma per tornare al calcio, come me la cavavo col pallone? Non giocavo male, ma neppure particolarmente bene: ero un'istintiva ala sinistra, veloce, con un dribbling rozzo, elementare, ma efficace. Non di rado andavo a rete, usavo, però, solo il piede destro, il sinistro era come se non esistesse e lo stesso valeva per il gioco di testa. Non ero una mezza sega, ma neppure mi si prospettava un futuro da calciatore, se non in qualche partita a venire tra scapoli e ammogliati.

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