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Scritto da Luciano Luciani
StoricaMente
20 Maggio 2025

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Nato a Livorno nel 1806, già a vent’anni Carlo Bini era circondato dalla fama d’essere un ingegno di tutto rispetto, ma indocile e ribelle. Uno scapestrato con nessuna altra vocazione se non quella delle lettere, testimoniata dagli studi classici portati a termine da autodidatta e da qualche collaborazione col giornale “L’Indicatore livornese” su cui scrivevano un paio di suoi amici destinati a ben altre future, diverse grandezze: Giuseppe Mazzini e Francesco Domenico Guerrazzi. Il Bini, oltre a una propensione per le tematiche civili e sociali, si occupava di letteratura e traduceva dal francese e dall’inglese le cose che riteneva notevoli di quelle letterature. Tra i pochi ad avere frequentazione con la lingua inglese, volgeva in italiano Sterne e Byron e per campare tirava avanti di malavoglia un’intrapresa familiare di compravendita di granaglie, un’attività a cui il Bini si costringeva per forza, ma che gli permetteva, comunque, un contatto quotidiano con l’umanità umile, bassa, plebea della città portuale: un’esperienza che lo vaccinerà per sempre da tutti gli aspetti decorativi e retorici della cultura letteraria del tempo. Una relazione con la miseria e i suoi figli che lo portò quasi naturalmente alla solidarietà con gli ultimi e gli permise di affilare le armi della critica sociale fino alla polemica aspra con il proprio stesso ceto di origine, quello mercantile, e la denuncia dei meccanismi diffusi e imperanti della violenza e della sopraffazione. Nel 1833 la polizia granducale, dopo aver già interrotto nel 1830 l’esperienza dell’”Indicatore livornese” in odore di liberalismo, arrestava Bini e Guerrazzi che trascorsero in prigione tre mesi, da settembre a dicembre, nel Forte Stella, a Portoferraio nell’isola d’Elba. In quei giorni e in quella condizione ristretta venne elaborato il Manoscritto di un prigioniero, un’opera tutta intrisa di sensibilità romantica nella quale sono presenti numerosi motivi di polemica sociale, in sottile equilibrio tra la riflessione e il racconto, tra il sentimentalismo e l’ironia di derivazione foscoliana-sterniana. Contraddizioni, ingiustizie, falsi miti gli appaiono più chiari nella solitudine del carcere. E allora Bini scrive. Non per cercare consolazione, ma per avere più evidente sotto gli occhi la pratica inattuabilità delle sue speranze politiche e civili. Il prigioniero del titolo non è solo Bini ristretto nella prigione elbana, ma è l’intellettuale democratico, progressista i cui programmi sono in anticipo rispetto all’Italia grigia, opaca degli anni trenta del XIX secolo che non crede nel riscatto nazionale, ma sente di dovervi partecipare comunque per uno spirito di servizio e di sacrificio
Chiusa la breve parentesi del carcere, la libertà riconquistata non valse che a fargli toccare con mano con ancora maggior forza la sua condizione di isolamento e di emarginazione. Qualche nuovo articolo, qualche nuova traduzione, un lavoro commerciale sempre più mal sopportato, il progressivo ritorno ad abitudini d’irrequietezza e sregolatezza, una condizione di noia esistenziale, di accidia che lo apparenta al Leopardi della “caduta delle illusioni”
 Risale al 1836 la sua lettera al padre Giulio, missiva scritta da Camaiore che prende spunto dai modi antiquati con cui il genitore gestiva l’azienda di famiglia. Durissimo l’atto di accusa di Carlo nei confronti del padre: questo prima ha repressa e mortificata la vocazione letteraria di Carlo e poi lo ha relegato a un ruolo subalterno in azienda, rendendogli la vita intollerabile. L’attacco è frontale. Carlo accusa il padre di essere un insipiente, un inetto, un cattivo amministratore e un pessimo negoziante. Un uomo dispotico colpevole di di aver portato alla rovina non solo l’azienda, ma la famiglia. Più morbidi i toni del letterato livornese nel suo epistolario privato e sentimentale, quelle Lettere all’Adele che raccontano gli sfoghi, le gelosie, le delusioni intervenuti nel corso della relazione durata pochi anni tra il Bini e Adele Perfetti de Witt, una ricca signora della borghesia livornese, “adultera guardinga e tiepida amante”, morta prematuramente nel dicembre 1838, donna dai sentimenti troppo prudenti, fragili e mediocri per una natura appassionatamente romantica come quella di Carlo. La breve vita del Bini si chiude nell’autunno 1842, a Carrara: un colpo apoplettico. Nell’agosto aveva scritto al Mazzini: “Sono un vecchio edifizio tutto franato, e non mi resta che un cuore tutto rughe e pieno di morti.”

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