Tutto ha inizio nella tarda estate del 1929, quando, per i tipi della Mondadori, escono in libreria quattro agili volumetti immediatamente identificabili per una copertina caratterizzata da un brillante color giallo limone: in alto, a lettere nero di china, il titolo; al centro, un’illustrazione racchiusa in un esagono geometrico, sostituito più tardi da un arco di circonferenza ribadito da un sottile filo rosso. Dalla copertina, appunto, la collana si chiamò “I Libri Gialli” e, secondo gli storici del “genere”, la scelta della denominazione fu del tutto occasionale e legata alla precedente attività della Mondadori che pubblicava già “I Libri Azzurri” dedicati ai narratori italiani ed editerà di lì a breve “I Libri Verdi”, collana di storia romanzata, e “I Libri Neri” realizzata per i soli romanzi di Simenon. Insomma, col 1929 gli italiani cominciano a diventare consumatori appassionati di “gialli”, ovvero lettori di romanzi polizieschi… Ma quando iniziano a scriverli, i “gialli”, gli autori italiani? A dire la verità avevano già iniziato, magari senza saperlo: la letteratura italiana del secondo Ottocento, infatti, presenta non poche storie che si muovono lungo l’asse mistero-indagine-risoluzione dell’enigma. Lo aveva fatto per esempio Emilio De Marchi, scrittore milanese con Il cappello del prete, 1887, un romanzo in cui si racconta del delitto compiuto dal barone Santafusca che, per volgari motivi di denaro, uccide un sacerdote, don Cirillo. Incapace poi di fare fronte agli incalzanti sensi di colpa, viene arrestato, ma il suo delitto provocherà anche la morte di don Antonio, un povero prete di campagna, coinvolto, suo malgrado, nella triste vicenda. In maniera non del tutto consapevole avevano poi utilizzato modalità proprie della detective story anche Luigi Natoli, Carolina Invernizio, Francesco Mastriani, Italo Svevo, Matilde Serao, Grazia Deledda, autori di diverso valore e capacità che si muovevano nell’area compresa tra romanzo d’avventure e d’appendice, romanzo psicologico, romanzo giudiziario intercettando talvolta talune convenzioni proprie del poliziesco. A farsi promotore di una trasposizione delle formule del poliziesco nella narrativa italiana è uno scrittore già cinquantenne che, quando inizia a pubblicare gialli, aveva già al suo attivo novelle, commedie, romanzi, versi, saggi di critica teatrale. Si chiama Alessandro Varaldo (1878-1953) ed è il primo a tentare il romanzo poliziesco in salsa tricolore: le sue vicende sono ambientate in Italia, compaiono questure e questurini, il protagonista è un commissario di polizia umanamente accattivante. Il limite più evidente di Varaldo? Raccontare l’Italia non come era, ma come era stata. Numerosi i titoli: Il Sette bello, 1931; Le scarpette rosse, 1931; La gatta persiana, 1933; Il segreto della statua, 1936, e via via tanti altri fino al 1944… Il suo eroe è un dirigente di Pubblica Sicurezza, Ascanio Bonichi, chiamato familiarmente sor Ascanio, baffi neri e gran fumatore di sigari toscani: gli scenari appaiono un po’ posticci e sanno di un’Italia umbertina che non esisteva già più. Damigelle nate ricche e improvvisamente impoverite, maestri di scherma, giovanotti squattrinati un po’ déracinés, nobili decaduti, vispe soubrettes… Quelli di Varaldo sono gialli spesso incruenti, quasi privi di elementi macabri: un vago sentore di belle époque e di romanzo alla moda, più Guido da Verona e Pitigrilli che D’Annunzio, però… Insomma, libri che a suo tempo ebbero un certo successo, ma che non hanno lasciato tracce nella storia del “genere” e tanto meno in quella della letteratura. Casomai nella sociologia letteraria. Un posto di rilievo, almeno nella storia del romanzo poliziesco italiano, se lo ritaglia invece il commissario De Vincenzi, personaggio inventato da Augusto De Angelis (1888-1944), un giornalista romano che volle programmaticamente creare una nuova figura di detective da contrapporre a quelle famose delle letterature straniere. «Ho voluto e voglio fare un romanzo poliziesco italiano. Dicono che da noi mancano i detectives, mancano i policemen e mancano i gangsters. Sarà, a ogni modo, a me pare che non manchino i delitti. Non si dimentichi che questa è la terra dei Borgia, di da Romano, dei Papi e della regina Giovanna…», così, con qualche punta polemica, De Angelis rivendicava il suo buon diritto a scrivere storie d’indagine ambientate in Italia e con personaggi italiani. Il suo protagonista seriale, che torna di romanzo in romanzo, è il commissario De Vincenzi che voleva diventare un poeta e si ritrova a fare il poliziotto: attività diverse, ma in fondo simili perché entrambe avvicinano a quei congegni complicati e delicati che sono il cuore e il cervello degli uomini dove sono racchiusi i più riposti segreti dell’esistenza. La città in cui De Vincenzi agisce è Milano, la più moderna, la più europea delle città italiane; il commissario è un uomo colto, conosce Freud, ama la letteratura russa, non ignora Edgar Allan Poe e si ricollega in maniera dichiarata tanto al cavalier Dupin quanto a Philo Vance. Nella sua vita aveva amato una sola donna ed era una ragazza ebrea. Augusto De Angelis scrive gialli per quasi dieci anni: Il banchiere assassinato, 1935; Il canotto insanguinato, 1936; Sei donne e un libro, 1936; La barchetta di cristallo, 1936; Il candeliere a sette fiamme, 1936; Il do tragico, 1937; La gondola della morte, 1938; Le sette picche doppiate, 1938-1940; Il mistero di Cinecittà, 1941; Il mistero delle tre orchidee, 1942. Muore, De Angelis, a soli 56 anni, nel 1944, a Bellagio in provincia di Como, nei mesi cupi della repubblica di Salò e tra le cause della sua scomparsa vanno annoverate la detenzione e le botte subite dopo l’8 settembre a causa del suo dichiarato antifascismo. In tragico suggello a un rapporto, quello tra un genere letterario e un regime tirannico e conformista che nel corso di quindici anni non riuscirono mai a trovare un comune terreno d’intesa.