È l'imbrunire del 4 agosto 1944. Come accade anche oggi, pure allora è in vigore l'ora legale che prolunga nelle ombre della sera gli ultimo chiarori della luce del giorno. Provenienti dall'interno, poco dopo le ore 21, sulla soglia del portone della Pia Casa in via Santa Chiara, fa la sua apparizione un piccolo gruppo di uomini: alcuni militari delle S.S., un uomo in abiti civili, presumibilmente l'interprete, un giovane che indossa una veste talare polverosa, sgualcita, stazzonata. Procede raccolto: in spalla porta una vanga, nell'altra mano stringe un rosario. Il drappello, dopo una breve consultazione, prende a destra e poi di nuovo a destra, lungo via della Fossaccia, una delle aree più disabitate e degradate della città. Il silenzio è rotto solo dal rumore cadenzato degli scarponi dei soldati e dalle parole, frante, spezzate, del giovane prete che prega ad alta voce. Chiede a Dio la remissione per i propri peccati, raccomanda a tutti il Vangelo e la carità, implora il perdono anche per quelli che di lì a brevissimo diventeranno i suoi assassini. Raggiunte le Mura, gli uomini si fermano un attimo, poi dirigono di nuovo a destra, verso Porta Elisa. Superata la Porta napoleonica, ora dirigono verso sinistra e procedono, calpestando la terra riarsa dall'estate e l'erba arida degli spalti. Dopo un centinaio di metri, l'alt. I militari si arrestano. Qualcuno di loro fuma: nel buio che avanza è possibile distinguere le braci delle sigarette. A don Aldo viene imposto di scavare la fossa che accoglierà il suo corpo. Il parroco di Fiano dà inizio a quella macabra operazione; poi, le forze non lo sostengono più: è stremato da tre giorni di vessazioni e umiliazioni, di digiuno, dalla commozione sovraumana di ritrovarsi di lì a pochissimo al cospetto di Dio, privo, lui prete, della consolazione dei sacramenti. Il civile completa frettolosamente l'opera, il plotone d'esecuzione si distribuisce nel prato e il prete s'inginocchia davanti alla buca. Mentre don Aldo benedice ancora una volta i suoi carnefici, parte la scarica mortale: 28 colpi di moschetto e un colpo isolato di rivoltella, quello di grazia. Sono le 22,00.
Don Mei cade squartato alla testa e viene sbrigativamente sepolto nella fossa dal perimetro appena accennato. Il piombo delle armi ha scheggiato le Mura alle sue spalle: un proiettile ha attraversato la mano del sacerdote, quella con cui ha intrapreso un segno di croce per benedire e assolvere i suoi assassini. Più lontano, nel luogo dove oggi sorge il cippo che lo ricorda, viene rinvenuto il suo cervello. Alla sua spoglia i tedeschi non risparmiano un'ultima offesa: col calcio di un fucile, per spregio, gli pestano l'occhio destro per sfigurarne ancora di più il corpo tanto odiato e temuto che, sino alla mattina successiva, resterà sorvegliato da una torva sentinella nazista.
IL 5 agosto la sua salma viene disseppellita. Al pietoso ufficio partecipano monsignor Emilio Micheli, don Giorgio Bigongiari, don Arturo Paoli, don Guido Staderini, don Fortunato Orsetti e suor Margherita delle Suore di San Vincenzo a Lucca. La spoglia è composta dalle suore Barbantini nella chiesa della ss. Trinità di via Elisa, di fronte all'entrata di villa Bottini ed è subito meta di un interminabile pellegrinaggio di fedeli. Il funerale è celebrato il giorno successivo, 6 agosto, ed è officiato dall'abate Ghilardi dei Canonici Lateranensi di Santa Maria Bianca. Tutta la Chiesa lucchese si raccoglie attorno al suo eroico sacerdote.
Lucca ha paura
Soffre, e non poco, Lucca, sotto il tallone di ferro del regime d’occupazione militare tedesca. La città ha paura. Da settimane, da mesi... Teme i tedeschi e i fascisti, i bombardamenti e i rastrellamenti, il fiato fetido dei delatori e le rappresaglie alle azioni dei partigiani che si vanno facendo sempre più audaci e determinati sulle colline, nelle periferie, dentro la cerchia urbana delle Mura. Un'angoscia che non trova requie. I vetri delle finestre, attraversati da strisce di carta incollate, assomigliano a occhi chiusi per il terrore, ciechi per non vedere gli orrori che si consumano in questa città un tempo civile, accogliente, pacifica... Eppure, nonostante il turbamento diffuso, la città resiste: perché quasi ogni casa nasconde uno sfollato, uno sbandato, un renitente alla leva, un prigioniero alleato in fuga, un ebreo in cerca di salvezza... Ha paura, Lucca, e fame. Manca tutto: i medicinali per gli ammalati; il combustibile per cucinare quel poco che si riesce a trovare al mercato nero: patate, farina di castagne, farina di mais, cedute a caro prezzo e in modeste quantità dalle famiglie contadine della Piana che ne hanno poco anche per loro. In cambio non di denaro, che è scarso e vale niente, ma di oggetti, soprattutto quelli preziosi che, anche nelle case più abbienti si vanno facendo sempre più rari. La città appare spopolata: radi i passanti, lente e rumorose le scarse biciclette; camminano sui cerchioni perché le gomme e le camere d'aria sono state utilizzate per farne zoccoli e ciabatte. Perché così ridotte sono meno appetibili per i tedeschi che, altrimenti, le requisiscono.
Ora alla fame e alla paura si aggiungono quella fossa lunga e stretta e quei due piedi che spiccano nel verde del prato. Cresce, insieme alla fame e alla paura, un sentimento di perdita che tocca tutti, tutti coinvolge... Ma non c'è solo quello: e i tedeschi armati che cercano, brutalmente, di tenere lontani da quelle povere spoglie i lucchesi più pietosi e coraggiosi, nella loro lingua dura e stentorea sembrano urlare alla gente soprattutto per lo sgomento di sentire il muro del disprezzo salire intorno a loro.