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Scritto da Luciano Luciani
StoricaMente
18 Gennaio 2024

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È circa un secolo che critici e scrittori discutono della maggiore o minore importanza da attribuire al romanzo poliziesco nel più ampio scenario della letteratura italiana. Una riflessione che non accenna a sfumare e che, anzi, ritorna con forza nel dibattito culturale dei nostri giorni, sollecitata dai recenti successi in libreria, e anche al cinema e sul piccolo schermo, dei romanzi di Giancarlo De Cataldo, Antonio Manzini, Maurizio De Giovanni, Giampaolo Simi solo per citare gli autori che vanno oggi per la maggiore: gli artefici più fortunati e famosi di quei best seller che, mixando sapientemente storie criminali attinte dalla realtà quotidiana e invenzioni horror/noir/splatter, si sono rivelati negli ultimi anni capaci di creare trame e personaggi credibili in grado di parlare al cuore e all’intelligenza di migliaia e migliaia di lettori.

Eppure, non è stato sempre così e nel nostro Paese il romanzo poliziesco, il “giallo” come siamo abituati a chiamarlo noi italiani, ha conosciuto antipatie e antipatizzanti, censure e rifiuti, manifestazioni, talora anche pesanti, di intolleranza non solo di segno letterario, ma anche politico. Questione ancora poco indagata la storia dei rapporti tra il giallo e il fascismo, che non amò mai il poliziesco, lo guardò sempre con sospetto e da un certo punto in poi iniziò a perseguitarlo. Quali i motivi di questa marcata antipatia? Innanzitutto, agli occhi degli esponenti del regime, questo genere letterario favoriva la corruzione dei costumi, soprattutto quelli dei giovani lettori: nei libri gialli, infatti, il bene e il male diventavano categorie morali un po’ troppo interscambiabili e assai di frequente l’autorità veniva derisa e la virtù messa in discussione. Per non parlare del fatto che i colpevoli risultavano spesso personaggi accattivanti e simpatici… Quindi i romanzi polizieschi, più o meno consapevolmente, finivano, agli occhi del regime, per gettare negli animi il seme della delinquenza e per questo non andava favorita la loro diffusione, che bisognava anzi contrastare in tutti i modi!

Nonostante autori e critici si battessero con ricchezza di argomenti per difendere la letteratura gialla, sostenendo, a ragione, che a fare male è sempre e solo la cattiva letteratura, di qualsiasi genere e colore, e che accusare i romanzi polizieschi di favorire la delinquenza sarebbe come dire che i romanzi di Flaubert spingono all’adulterio e quelli di Pirandello alla pazzia, quelle considerazioni non servirono a salvare il giallo dagli interventi della censura. In tempi di nazionalismo forzato e di cultura autarchica, i romanzi polizieschi furono visti come portatori di stili di vita stranieri, soprattutto inglesi e americani, e quindi liberi e deprecabili. Insomma, il giallo proponeva modelli, stili di vita, comportamenti pubblici e privati incompatibili con l’idea di società e di uomo che il fascismo si sforzava di imporre. Nel nostro Paese, agli occhi dell’opinione pubblica tutto si doveva svolgere nel migliore dei modi e la censura proibiva addirittura di pubblicare le notizie dei fatti di sangue e dei delitti. E allora il romanzo giallo diventava una vera e propria spina nel fianco della sana e conformista società italiana governata dal fascio littorio. Così scriveva “Il Bargello” di Firenze nell’estate 1936: «…si tratta di romanzi esteri, polizieschi e giudiziari, che riproducono leggi e costumi ben differenti dai nostri… sarebbe opportuno che ad ogni traduzione di romanzo straniero venisse appiccicato un cartellino così concepito “Usi e costumi della polizia e della giustizia che non sono italiani. In Italia, Giustizia e pubblica sicurezza sono cose serie”». Nel romanzo poliziesco il regime incontrò non poche resistenze e il giallo fu sempre uno strumento refrattario alla sua glorificazione: in un primo tempo il fascismo non nascose la sua antipatia per il genere, ma gli permise di vivere relativamente in pace; poi, giudicandolo addirittura nocivo e pericoloso, tentò di eliminarlo: «Ci si domanda cosa si aspetta a fare un repulisti energico e bonificatore di tutta questa zavorra di carta sprecata, come ad esempio ha fatto il Giappone con la musica jazz, tanto più che in questo caso non si tratta solo di una giusta ritorsione verso nemici che anche quando non erano tali hanno sempre misconosciuto la nostra letteratura, quanto di fare opera meritoria per l’educazione morale e letteraria del popolo nostro» (“Meridiano di Roma”, 27 X 1940). Arriviamo all’agosto 1941 quando «Il Ministero della Cultura Popolare ha disposto per ragioni di carattere morale che la pubblicazione dei libri gialli sia sotto forma di periodici, sia di dispense, venga sottoposta alla preventiva sua autorizzazione. Il Ministero ha disposto inoltre che vengano ritirati dalla circolazione non pochi romanzi gialli già pubblicati e che giudica nocivi per la gioventù. L’incarico di ritirare tali libri è stato affidato agli editori stessi». Così commenta “L’Assalto”, giornale del fascio bolognese: «Il provvedimento è saggio e intelligente… Era ora di finirla con questo genere di bassa letteratura improntata sulla apologia del delitto». L’ultimo volumetto dei “Libri Gialli” Mondadori fu stampato nell’ottobre 1941: l’autore si chiama Ezio D’Errico ed è uno scrittore disincantato e un po’ crepuscolare che in quegli anni riscuoteva il favore dei lettori. Titolo epigrafico ed emblematico: La casa inabitabile. Ancora non basta, però. Non pago di aver colpito la principale collana editoriale, la più letta e diffusa, il Ministero della Cultura Popolare con un’ordinanza del 1° VI 1943, disponendo il sequestro «di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita» crede di regolare definitivamente i conti con un genere letterario mai allineato alle direttive del regime. Ma, come ben sanno i nostri lettori, si tratterà di una vittoria di breve, brevissima durata.

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