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Scritto da vittorio prayer
StoricaMente
06 Novembre 2022

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Miriadi di "anni luce" fa tra noi adolescenti l'espressione "scemo di guerra" era assai in uso. Bastava sbagliare un canestro facile-facile alla ex Gil, che i compagni tutti in coro ti apostrofavano:"Scemo di guerra...Scemo di guerra...".

Vecchio caro spazio di terra quello della ex Gil nell'epicentro di Carrara, del tutto simile ai "Playgrounds" Usa, dove le "stelle" del basket nostrano non si scandalizzavano mai a menare il pallone con le scamorze. Dando vita, talvolta, a fior di campioni altrimenti relegati nei purgatori dello sport. Quando mi hanno apostrofato "Scemo di guerra" io non sapevo cosa volesse dire, come i miei rimbrottanti del resto. Nel bagliore di pensiero di giovincello pensavo ai miei vecchi che tutte le guerre le avevano combattute e immaginavo esplosioni ed assalti, bombardamenti e crolli, distese di fili spinati. Atti di eroismo, paure, lacrime e sangue e... grani di follia. "Scemo di guerra", forse era questo il significato degli sfottò a vecchia memoria ereditata. Non ne ero assolutamente convinto, ma mi tenni il dubbio per diversi anni. Fino a quando nelle cantine brulicanti di Carrara non m'imbattei in tale signor "Galliano", che tutto era tranne che scemo di guerra, anche se la guerra l'aveva frastornato e non poco.

Avrà avuto una sessantina d'anni e ne dimostrava assai di più. Di lui mi colpirono subito l'aspetto, ora elegante ora trasandato. Dialettica per innegabile cultura, ma soprattutto i grandi occhi che alternavano letizia a malinconia e che parevano sprizzare fuori dal volto interessante e smunto, in un corpo lillipuziano e segaligno. E i suoi sproloqui, da cantina, a toni offensivi affatto allegorici: "Che ne sapete voi di Dante che è  Sommo Poeta e non il "magnàn" di Torano. Di Gustav Mahler, grande compositore, musicista e maestro concertatore boemo...Che certo non è un commerciante austroungarico di marmi informi. Bifolchi ignoranti invidiosi anche delle mie cambiali, che diavolo vi dice la strofa del Pascoli: "O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna". Crederete mica che il vostro padrone sia caduto da cavallo?".

Il signor "Galliano" era così e anche di più, logico che gli affibbiassero la nomea di ubriacone impenitente e di macchietta nata e sputata. Oddio, il vino buono gli piaceva, ma l'etichetta appiccicatagli era falsa e bugiarda. Dietro l'immagine e la personalità del Sig. Galliano si celava una storia profonda, come l'abisso della Fossa delle Marianne. Una storia da finale di articolo...
Gli "Scemi di guerra" erano diversi soldati italiani che combatterono sui vari fronti fiammeggianti della Grande Guerra e del Secondo Conflitto Mondiale. Traumatizzati dalla battaglia in trincea - specie durante la Prima Guerra - alcuni di loro invocarono la triste patente da "Scemo di guerra", per salvarsi la pelle. Alcuni, scemi di guerra lo divennero sul serio. Soldati nostri spesso male equipaggiati, terrorizzati, infreddoliti, gelati, con la fame e la paura intime compagne di viaggio. Frastornati dai bombardamenti a tappeto di giganteschi obici e cannoni che gli sparavano sulle teste enormi proiettili. Spauriti dal tiro preciso di micidiali cecchini, che centravano sempre i perforabili elmetti. Essi cominciarono a dare segnali di squilibrio mentale e in tanti - in troppi secondo lo Stato Maggiore - marcavano visita. Trasportati in lugubri manicomi i Nostri venivano condotti all'esame di medici "strizzacervelli" che non sapevano affrontare le nuove patologie. E applicavano sulle cavie dalle stellette sui baveri terapie sbrigative: torture, come l'elettroshock a 70 volt persino sugli organi genitali ed altri supplizi, utili solo a rispedirli al fronte il più presto possibile. A fare si che in futuro avessero più paura delle terapie che dei mali della battaglia. E "creavano" esseri tremanti dalla testa ai piedi, che supini si contorcevano in pose brutali, e urlavano, mentre ingoiavano gli escrementi loro.  Dopo tanto strazio i soldatini tornavano ad essere "Carne da cannone". Ubriacati da litri di "brandy" andavano all'attacco all'arma bianca e con mazze ferrate fracassavano la testa ai nemici agonizzanti. Automi sotto shock uccidevano e venivano uccisi in maniera tremenda, e non erano pochi quelli che speravano di ricevere un proiettile "liberatorio" al centro della fronte.

Splendido e atroce il documentario "Scemi di Guerra", realizzato dal regista torinese Enrico Verra, che ha eseguito un mirabile "collage" con pellicole girate all'epoca dagli operatori militari del Regio Esercito Italiano. Servizio speciale mandato in onda su "History Channel" di Sky Tv, il filmato mostra scene da raggelare il sangue nelle vene, accadute nei manicomi dello Stivale in periodo bellico. Certo c'erano gli imboscati, i cosiddetti "Furbi di Guerra", che fingevano demenza per tornare a casa o come minimo per essere inviati nei servizi sedentari, di retrovia, o nelle infermerie. Ma i medici militari li sottoponevano ad atroci sevizie e li costringevano ad assistere ai supplizi altrui, semmai qualcuno intendesse "guarire" prima del "trattamento". Se al contrario il fante era giudicato "Scemo di Guerra" grave e sincero, il malcapitato  veniva ricoverato in ospedale poi rispedito a casa sua, ma bollato dal marchio di "folle" che gli resterà indelebile per la vita.

Una tragedia moderna della quale poco si conosceva, che al contrario ha afflitto tanti soldati d'Italia d'ogni ceto o censo. E che solo durante la Seconda Guerra Mondiale ne è stato definito e riconosciuto in pubblicistica il brutto termine di "Shellshock", o psicosi traumatica da trincea o "sindrome da conchiglia", dato che stare in trincea era come essere una perla dentro il guscio.

E pensare che un fante in un impeto d'amor patrio, propose agli alti comandi del Regio Esercito la istituzione di speciali battaglioni di mentecatti - con lui alla testa - da utilizzare in prima linea o in zone del fronte a morte sicura, per copertura dei battaglioni di commilitoni di... sana e robusta costituzione...
Poveri soldatini in grigio-verde calzati e vestiti, guerrieri od imboscati costretti a "vivere" per mesi e mesi in trincee disumane. E dopo, per ringraziamento patrio, subire il doppio insulto: quello della insanabile ferita di guerra e quello del rientro a casa. Soldati d'Italia considerati come dementi reietti, quasi che la colpa della malattia fosse solo "cosa loro".

Nella Seconda Guerra la follia da "Shellshock" si manifestò con caratteristiche diverse, da paese a paese e da fronte a fronte. In Italia l'aspetto più rilevante non riguardò soltanto i soldati, ma coinvolse anche le donne e la popolazione civile. La paura dei bombardamenti, la lontananza dei congiunti "dispersi in guerra", l'occupazione militare, il passaggio degli eserciti stranieri con tutte le brutte conseguenze sul nostro popolo, la denutrizione, la pericolosa lotta di resistenza, le rappresaglie, le esecuzioni in massa e infine la caduta di ideali mitici, furono in parte le cause dirette di gravi patologie mentali. Ma gli psichiatri dell'epoca le ritennero quasi sempre "malattie preesistenti", magari solo "latenti" e negarono che la guerra fosse radice di pazzia. Questa teoria della predisposizione alla follia permise allo Stato italiano negli anni a venire di risparmiare un sacco di soldi sulle pensioni di guerra, non concesse a poveracci che avevano reso l'anima e la mente al Diavolo.

Il signor "Galliano" da Carrara tra le altre cose amava la musica classica. Un giorno lo portai sulla mia automobile alle cave dei "Campanili" sopra Colonnata, anche se in precedenza - giusta e veristica citazione - ci eravamo offerti a vicenda qualche calice di vino rosso e spumeggiante. Gli altoparlanti all'interno della vettura diffondevano note musicali memorabili. Arrivati in sommità dei "Campanili" da dove si dominano le Apuane e il mare tra panoramiche e colori strabilianti, il mio ospite disse: "Per favore elimina dal mangiacassette i cori wagneriani, chè mi viene voglia di invadere la Polonia. Metti al suo posto un altro grande compositore". Eccoti la "Sagra della Primavera" di Igor' Stravinskij. "Togli anche quella musica lì - si accalorò il signor "Galliano" - levala per cortesia, che mi ricorda la mia personalissima ritirata in Russia...". Necessarie spiegazioni.

Il "Galliano" poco più che ventenne venne spedito a far la guerra in Russia (1941-1943), tra le fila dell'Armir (Armata Militare Italiana in Russia). Lui partì con entusiasmo al fianco delle truppe tedesche, ma ben presto si rese conto di essere stato immerso in un'epica divenuta una delle più rovinose campagne militari della storia d'Italia. Patì enormi sofferenze, identiche a quelle di migliaia e migliaia di suoi commilitoni, che magari si coprirono di "gloria", ma conquistarono solo... tombe di ghiaccio. "Galliano" fu sui fronti di battaglia a Nikolajewka, Chazepetovka, Isbushenskij e su quello della spaventosa ritirata nella regione del Don, in seguito narrata da Giulio Bedeschi nel suo stupendo romanzo "Centomila gavette di ghiaccio". Il Nostro non morì sotto il fuoco nemico o di stenti per il gelo. I pidocchi e le pulci non lo dissanguarono. Né la paura, la fame, il maledetto freddo del "Generale Inverno", il tifo e la dissenteria lo uccisero. Solo che  nella disastrosa ritirata di Russia, dovette sobbarcarsi più di 2 mila 700 chilometri a piedi, per far ritorno a Carrara.

"Non l'ho mai detto a nessuno, ma fummo costretti a una tragica marcia collettiva per la salvezza - ammise "Galliano" - disperatamente attaccati alla vita come non mai ci ritenevamo fortunati, poiché dei 220 mila soldati inviati in Russia all'appello ne mancavano la metà. Costretti a tappe forzate inumane, sulla neve con le "Pezze da Pé"; a spostamenti su carri bestiame quando ci davano un passaggio. In condizioni allucinanti, denutriti e debilitati, col terrore di essere presi dai russi e finire nei gulag. Ci ho messo sei mesi d'inferno e di "nascondino" a tornare a Carrara, con la dannata paura di venire ammazzato da chiunque durante il mio viaggio da sopravvissuto e avvilito".

Il signor "Galliano" non fu mai uno "Scemo di Guerra" al pari di tanti soldati ignoti, anche se nella sua città per il suo comportamento spesso incompreso, lo definivano "una macchietta ubriaca". Ironia del destino lui di mestiere faceva il rappresentante di banconi da bar. "Di quelli più belli e costosi - amava dire - dove le cavallerie di buon vino ci ballano sopra in allegrezza, non certo come la cavalleria "Savoia" nella sua ultima carica sul fronte russo ad Isbushenskij".

Secondo voi il "Galliano", come tanti altri che nel dopoguerra si "buttarono" a vivere la vita a modo loro, era rimasto traumatizzato dall'orrore? Chissà...
Una cosa è certa, lo scampato di guerra era uomo colto e adorava declamare versi di Erasmo. Una volta mi disse:"Non vorrei mai bere con un uomo che si ricordasse di tutto. Odio l'uditore di una troppo felice memoria. Per la qual cosa state sani, applaudite, vivete, bevete, o celeberrimi iniziati ai misteri della Pazzia. Ho finito".  

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