"Signora Vianini... è lei la signora Vianini?"
Maria Grazia Petronaci, moglie del comandante Bruno Vianini non ha voluto ascoltare altro, ha capito subito e si è chiusa nel suo ufficio al primo piano del Tribunale della Spezia.
Si è seduta alla sua scrivania di funzionario della Procura e ha lasciato fuori dalla porta i due ufficiali venuti a comunicarle che l'aereo della Kam Air sul quale si era imbarcato il marito, partito da Herat e diretto a Kabul, si era schiantato sulle montagne afgane.
E' il 3 febbraio del 2005, il capitano di fregata Bruno Vianini, incursore della marina militare, assegnato al COFS, comando operazioni forze speciali, comandato dal generale Marco Bertolini, rientra a Kabul dopo una ricognizione per la costituzione del Provincial Reconstruction Team, ovvero di una squadra italiana per la ricostruzione nell'area di Herat.
Il comandante Vianini sale sul Boeing 737 e si siede nella seconda fila del lato destro.
Il volo 904, con centoquattro passeggeri a bordo, decolla alle 14,32.
Alle 15,15 la torre di controllo di Kabul nega l'ok per l'atterraggio a causa della tempesta di neve poi l'aereo scompare nel nulla, fino allo schianto.
Il buco nero nel quale è stato inghiottito è ancora profondo e inesplorato.
Si parla subito di un incidente causato da condizioni meteorologiche avverse ma i dati che via via vengono raccolti puntano tutti in un'altra direzione. Emergono anomalie, dubbi, omissioni, gravi violazioni nelle procedure di volo.
Se le condizioni meteo erano così avverse perché venne autorizzato il decollo? L'aereo inoltre parte con una quantità di carburante appena sufficiente a raggiungere Kabul, tanto che quando impatta con le montagne non c'è esplosione perché i serbatoi sono vuoti. Incomprensibile anche il comportamento dei piloti che, come emerge dai tracciati di volo, si dirigono inspiegabilmente verso le montagne, senza chiedere un atterraggio di emergenza, senza rispondere alle chiamate del controllo. Non solo. Uno dei piloti comunica di essersi stabilizzato a quota 130 ma come dimostrerà il radar di terra che registra l'altitudine in realtà l'aereo è in continua discesa e non è affatto stabilizzato.
Per tutta la notte e la mattina seguente si rincorrono notizie contraddittorie: l'aereo è disperso, no è atterrato a Peshawar in attesa di ripartire, no si trova all'aeroporto di Islamabad.
Maria Grazia tira un sospiro di sollievo, tranquillizza i suoi due figli che hanno otto e dieci anni, l'aereo è atterrato, è tutto a posto.
Ma il 4 febbraio in serata iniziano a circolare notizie dello schianto.
Disperazione, rabbia ma soprattutto incredulità, Maria Grazia non ci crede, le informazioni che arrivano sono troppo contraddittorie per essere fondate. Chiede notizie, dettagli ma è difficile far luce su ciò che è accaduto, neppure le scatole nere aiutano a ricostruire i fatti: quella con le comunicazioni dei piloti e delle torri di controllo è andata dispersa, l'altra non contiene alcun dato, si è detto per errori tecnici ma più verosimilmente per le manomissioni subite.
Misteri anche sulle ricerche che iniziano con grande ritardo, non si riesce a individuare il luogo in cui si trova il relitto i cui frammenti vengono ritrovati dopo giorni, sparsi sulla cima della montagna. Non c'è nessun sopravvissuto.
Gli americani fanno sapere di non avere medici legali a disposizione e così viene incaricato di fare i rilievi sulle salme il colonnello dei carabinieri Carlo Maria Oddo.
Il lavoro viene svolto in condizioni difficilissime: i corpi non sono integri e soprattutto manca un numero rilevante di salme.
Oddo scopre che gli americani hanno fatto trasportare alcuni corpi nella loro base di Bagram, il colonnello si infuria, chiede l'intervento dell'ambasciatore Sequi, si rischia l'incidente diplomatico.
Gli americani si affrettano a comporre la lite, si scusano e restituiscono i sacchi con le salme ma Oddo dichiara di non essere convinto che i corpi restituiti siano quelli delle vittime dell'incidente.
La Procura di Roma intanto apre un'indagine e Maria Grazia Petronaci incarica l'avvocato Caroleo Grimaldi di seguire l'inchiesta.
Il legale accetta ma dopo qualche tempo, rimette il mandato e nonostante il carteggio intercorso con la cliente che attesta incontrovertibilmente il mandato ricevuto, negherà di averla mai conosciuta.
Il caso viene chiuso rapidamente come incidente causato da "disorientamento del pilota in fase di atterraggio" lasciando le famiglie delle vittime senza risposte, nello sgomento.
Sul disastro aereo cala un silenzio soffocante, nessun giornale ne parla, nessuna trasmissione televisiva se ne occupa, eppure si tratta dell'incidente aereo più grave mai successo in Afghanistan.
Troppe le domande senza risposta: è stata una bomba a far esplodere l'aereo? Oppure il velivolo è stato colpito da un missile? Si è trattato di un dirottamento? O di un pilota suicida? Nessuna indagine è stata disposta per cercare tracce di esplosivo, non si sa nulla del comandante Simonov che pilotava l'aereo, ne' del secondo pilota Zotov, non sono mai stati eseguiti gli esami tossicologici sui corpi dell'equipaggio.
Sono passati quindici anni, ma per Maria Grazia Petronaci il calendario è fermo alla fredda mattina di febbraio in cui si è sentita chiamare dagli ufficiali giunti davanti alla porta del suo ufficio.
Non c'è pace senza risposte a una tragedia che ti sconvolge la vita, è un vano susseguirsi di domande che restano sospese.
Si riapra il caso, si facciano le indagini, si ricerchino le vere cause di ciò che è accaduto nel 2005 nei cieli dell'Afghanistan.