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Scritto da andrea cosimini
Cultura
09 Gennaio 2023

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Presentare Andrea Tofanelli è facile: lui è un trombettista. Punto. Nato a Viareggio 57 anni fa, della cosiddetta ‘viaregginità’ ha però conservato ben poco. Gradino su gradino, ha costruito la sua stellare carriera nel mondo della musica con un’etica del lavoro ed un’integrità morale ferree, grazie agli insegnamenti del padre Dino.

Docente di tromba, uno dei pochi - se non l’unico – che fa alta formazione sia come tromba classica che jazz, divide la sua anima solista con quella di uomo d’orchestra. In quasi 26 anni di televisione, ha accompagnato praticamente tutti i più grandi artisti italiani e stranieri: da George Michael a Joe Cocker, fino a Gloria Gaynor. Artista estremamente prolifico e versatile, ha inciso più di 500 dischi tra pop, jazz, musica latina e colonne sonore.
Tra la miriade di riconoscimenti internazionali, da sottolineare che è l’unico trombettista italiano – ad oggi - ad essere stato chiamato a far parte del consiglio direttivo dell’International Trumpet Guild, ovvero l’organizzazione mondiale della tromba.
La sua ultima fatica discografica si intitola “Vulcano”. Un disco eterogeneo, esplosivo e dirompente. Proprio come lui.

Andrea Tofanelli, come nasce ‘Vulcano’?

“Il Covid ci aveva chiusi tutti in casa, per cui abbiamo cominciato a cercare nuovi modi per suonare assieme tramite collegamenti estemporanei sui social. È nata così l’idea di realizzare un video per una scuola civica di jazz a Senigallia, dove tenevo una masterclass di tromba. In pratica: io ho fatto il solista ed è stato scelto un gruppo ad accompagnarmi. Il brano scelto è stato: ‘Amazing Grace’ (poi inserito nell’album). L’arrangiamento è stato affidato a Michele Samory, uno degli studenti che frequentavano la mia masterclass, nonché allievo di Marco Tamburini – famoso jazzista e grandissimo amico, con il quale ho condiviso il tour di Jovanotti nel 1997”.

A Michele Samory è stato affidato poi l’arrangiamento dell’intero disco…

“Sì. Conoscevo Michele come trombettista, ma non come arrangiatore. Quando l’ho sentito, sono rimasto a bocca aperta. “Questo è proprio ciò che ho in testa io!” gli dissi. Così ci siamo trovati. Abbiamo messo su un gruppo di cinque trombe (“The Trumpet Show Band”) e ci siamo rifatti ad una sonorità che richiama un gruppo jazz-rock degli anni ’70: i Chase - guidato da Bill Chase, uno dei più grandi trombettisti della storia del jazz”.

Un disco molto eterogeneo. Può farci una breve panoramica?

“Il disco contiene delle musiche che ho sempre amato, pur non essendo state scritte per la tromba. Dai New Trolls – che per me sono stati pazzeschi – ai Rockets - un gruppo francese che faceva un rock elettronico. Questi ultimi erano bravi musicisti ed usavano un suono che si chiama synth-lead (ottoni sintetici). Noi li abbiamo rifatti, ma con le trombe vere, e posso assicurare che i brani ci hanno guadagnato parecchio. Poi ci sono due medley di sigle televisive degli anni ’80, con intermezzi jazz, “Spain” di Chick Corea ed infine un po’ di miei brani originali. Il disco si chiude con un omaggio ai trombettisti - ma molto apprezzato anche dagli altri -, ovvero un medley di studi per tromba sovrapposti con la struttura armonica di certi standard del jazz”.

Ma che musica ascoltava Tofanelli da piccolo?

“Sono cresciuto ascoltando un po’ di tutto. A sei anni mio padre mi portava a sentire le opere di Giacomo Puccini al teatro all’aperto di Torre del Lago. Poi guardavo la televisione - che per la mia generazione è stata importante: da Canzonissima al Festival di Sanremo, fino a Lo Zecchino d’Oro. In casa, infine, giravano i 45 giri dei successi italiani degli anni ’60, anche se io mettevo sempre su un disco dei Vanilla Fudge - un gruppo che rifaceva musica classica in chiave rock.
Quando arrivai alle scuole medie e superiori, i miei amici ascoltavano i Dire Straits, i Duran Duran, i Simple Minds, gli Spandau Ballet. Io però avevo nelle orecchie altri suoni”.

Perché ha scelto proprio la tromba?

“Fin da bambino avevo questa idea di fare il trombettista. In famiglia mi hanno riferito che quando ero piccolo ed appariva sullo schermo la grande orchestra della Rai, io correvo alla televisione e dicevo: “Io voglio suonare quella lì”. Ed indicavo la tromba”.

Oggi che musica ascolta?

“Mi nutro di musica varia. Se in gioventù ho ascoltato prevalentemente trombettisti, oggi qualsiasi cosa che sento bella la faccio mia. Fanno così quasi tutti i trombettisti a livello mondiale: prendono spunto da cose scritte per altri strumenti e scoprono essere migliori se eseguite con la tromba. L’unico genere di cui non sono un fan è il rap. Lo capisco, ne comprendo le radici, ma proprio non lo digerisco. Mi annoia”.

Quanto ha influito suo padre nella sua formazione umana ed artistica?

“È stato una delle figure più importanti della mia vita. Una persona di estrema integrità, morale ed etica. Ha sempre messo davanti il dovere ad ogni cosa. Mi ha insegnato a stare al mondo. Mi diceva sempre che quando ci si costruisce qualcosa con le proprie forze, guadagnandosela, poi non ce la toglie nessuno.
Papà lavorava in ferrovia ed era un uomo molto casalingo. Per fare qualcosa di diverso, un giorno intraprese dei corsi per suonare nella banda. Ed è così che anch’io ho avuto modo di conoscere meglio la tromba. Quando ho iniziato a suonare questo strumento, mi ha comprato subito i dischi di Louis Armstrong e di Nini Rosso - un trombettista che ha venduto più di 10 milioni di dischi con ‘Il silenzio’ e “La ballata della tromba” e che ha inciso brani pazzeschi con alcune delle orchestre italiane più importanti. Insieme giravamo i negozi di dischi appositamente per trovare i loro dischi”.

Poi come si sono evoluti i suoi ascolti?

“Ad instradarmi sono stati il mio primo insegnante di tromba, Icilio Giannerini, un jazzista che aveva a che fare con Chet Baker; e Marino Peruzzi, musicista pazzesco che suonava con Don Marino Barreto Junior. Tramite loro ho cominciato a comprare i dischi di Dizzy Gillespie. E qui lo devo ammettere: venendo dagli ascolti di Louis Armstrong, Nini Rosso e Dizzy Gillepsie, quando sentii per la prima volta Chet Baker e Miles Davis mi venne spontaneo dire: “Questi non sanno suonare la tromba!” Perché da ragazzo si studiavano, più che altro, i virtuosismi. Oggi, a 57 anni, potrei dire esattamente il contrario (ride)”.


Lei ha omaggiato nei suoi dischi il grande trombettista canadese Maynard Ferguson. Come lo ha conosciuto?

“Maynard Ferguson è stato la mia ispirazione. Non lo conoscevo fino a che non sono entrato in conservatorio. Una sera, tornando a casa, un mio amico mise la sua cassetta nello stereo della macchina dicendomi di aver scoperto questo trombettista incredibile. Mi cadde letteralmente la mandibola ascoltandolo. Mi conquistò il suo modo di svettare sulla parte acuta dello strumento. Da lì cominciai a ricercare ed ascoltare tutti i suoi dischi. Volevo suonare così”.

E come è riuscito a suonarci assieme?

“Nel 1997 andai a vedere un suo concerto all’interno di un festival jazz a Sori, in Liguria. Era estate. Chiamai l’organizzatore del concerto e gli chiesi quando Maynard avrebbe fatto il soundcheck. Mi disse l’orario ed io, due ore prima, ero già lì. Arrivò il pullman con la band, ma lui non c’era. In compenso c’era il suo road manager, Ed Sargent, un uomo di 1.90 metri di statura, di origine irlandese. Lui teneva lontani tutti. Non era per niente amichevole. Con me, però, fece un’eccezione. Ancora non mi spiego il perché. Mi invitò al soundcheck, poi a cena con tutta la band ed infine in hotel. Lì conobbi Maynard e fu un’emozione incredibile. Mi parlò dell’opera italiana in macchina e mi dedicò, quella sera, una versione solo tromba e pianoforte di “Caruso” di Lucio Dalla. Restammo in contatto e quando incisi il mio primo disco da solista (“Mattia’s Walk & Tribute To Maynard Ferguson”, 1999) glielo spedii. Lui cominciò a chiamarmi come ospite della sua orchestra. Mi chiese anche se volevo entrare nella band, ma avrei dovuto mollare il posto in conservatorio e scelsi la famiglia”.

Ultima domanda: lei insegna nelle scuole, cosa vorrebbe dire ad un giovane che si approccia alla musica?

“Che il talento, nella musica, non basta. Ci vuole tanto sacrificio giornaliero. Per costruirsi una solida carriera di musicista non bastano i talent, servono anni e anni di duro lavoro. La maturità di uno strumentista la si raggiunge intorno ai 50 anni”.

Andrea Cosimini


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